domenica 24 gennaio 2010

Michael Haneke, A suitable case for treatment

I can understand why the jury of the last Cannes Film Festival assigned to The White Ribbon by Austrian film-maker Michael Haneke the Palme D’or, but I have to confess that I don’t agree with them.
I had postponed for months the vision of this movie and I finally decided to watch it last week just because I felt almost guilty, as a cinema blogger, not to have seen one of the so considered best movies of 2009. I always had troubles with Haneke, with his stories, with what he says in his interviews. In the past, I only made one exception, and I went to see The Piano Teacher with Isabelle Huppert. A very good movie, as well as The White Ribbon is an incredible one, but my problems with Haneke, well, that ones remain intact.

The White Ribbon’s story is set in a rural German village around 1913 and it is narrated by a voice-off, the one of the village school’s teacher who, at the time, was a young man in his early thirties.
The apparently quite life of the place is broken by a series of dramatic events: the doctor has a bad accident with his horse provoked by a wire somebody stretched in his garden, during a festivity the little son of the baron is found tied up and beaten, another little child risks to die because the window of his bedroom has been deliberately left open in the cold winter, a fire is set in the baron’s property, and then the midwife’s young son (affect by down’s syndrome) is found tortured and with his eyes burnt.
Who is beyond all these awful facts? This is the question in all people’s mind, but there won’t be an answer. The only one who got a clue, the midwife, goes to town to tell the police but she will never come back, and his son, as well as the doctor (the midwife’s lover) and his family, will disappear. The First World War is around the corner, more terrible events are about to break out and the young teacher, who is going to get married, will leave the village forever.

The White Ribbon is a rigorous, perfectly crafted, sumptuous (oh, those magnificent black and white images!) movie. Haneke is a master in creating, sequence by sequence, a horror tale. Behind the smooth surface, behind the figures that should bring comfort, confidence, and love, there are hidden monsters (just to make a couple of examples: the doctor is abusing his young daughter, the vicar is obsessed with integrity and unable to show any kind of affection to his children). And the children? Well, this is the scariest thing of all: the children are/will be the results of this education, of their parents’ behaviour, of that oppressive atmosphere.
Is Hitler, by any chance, one of the villagers’ surnames? I’m sure nobody will be surprised to hear that, in the end.

The real trouble with Haneke, for me, is that he has what I considered the worst defect a film-maker (and a human being, generally speaking) could have: he is cold. He is detached from what he is saying. He put a distance between him and his images. He doesn’t show any kind of pity towards the human beings he is talking about.
Ok, I got the picture: we are all monsters, human nature is evil, violence is within ourselves and sooner or later will get out and ruin our lives. Well, I think this is insane and extremely uninteresting.
Mike Leigh, for instance (God bless him!), has always shown the bleakness and the misery of human nature in his movies, but he does that with compassion and affection. This is why his movies can save us.
In Haneke's movies there is no salvation, no catharsis, no hope, just condemnation and coldness.
In The White Ribbon there is the most terrifying dialogue between a man and a woman I’ve ever seen in a movie: the doctor and the midwife insult each other in such a bad way, using words filled with such deep hatred, while they don’t move, while they remain still. It is really an unbearable scene to look at.


Haneke once said that "A feature film is twenty-four lies per second".
If it so, why don't you tell us sweet ones next time, Michael?

domenica 17 gennaio 2010

Momo, L'uomo che amava le donne

Rivedo ancora la scena: è l'estate del 1983, entro nella piccola sala di un cinema d'essai di Milano, e mi rendo conto che delle solite 15 file di sedie, ne restano soltanto due. Quelle in fondo. Appoggiata al muro, una motocicletta. La sala sta per chiudere per le vacanze, e si vede. Il film che sto per guardare è Pauline à la plage di Rohmer.
E' triste, penso, essere l'unica di tutta la città che abbia voglia di vedere questo film, ma allo stesso tempo questa esclusività non mi dispiace. L'idea di avere un uomo come Rohmer tutto per me... un sogno!

Che speravo non finisse mai.

Eric Rohmer, vero nome Jean-Marie Maurice Schérer, nato a Nancy nel 1920, è stato un insegnante di filosofia e uno scrittore prima di perdere completamente la testa per il cinema. Negli anni '50 si ritrova a Parigi a gestire la programmazione di un piccolo cinema del Quartiere Latino. E tutti i pomeriggi vede arrivare le stesse quattro facce: Truffaut, Godard, Chabrol e Rivette. Rohmer, che è il più anziano di tutti, prova tenerezza per questi quattro ragazzetti che si consumano la vista di fronte allo schermo, dal mattino alla sera. Fino a quando André Bazin, noto critico cinematografico, non li raccoglie tutti dalla strada (e dalle sale buie) e li obbliga a mettersi a scrivere di cinema, fondando la rivista Les Cahiers du Cinéma. E il resto è storia.
E' in quegli anni che Rohmer si sceglie il suo nome d'arte: Eric (in onore di Eric Von Stroheim) e Rohmer, come omaggio ad uno scrittore da lui amato. Gli amici però lo chiamano tutti Momo. Considerato dagli altri il più "coltivato" del gruppo, Rohmer è l'anima teorica della Nouvelle Vague. Quando, nel 1959, tutti i critici dei Cahiers passano all'azione e si mettono a fare film, lui gira il suo primo lungometraggio, Le Signe du Lion.
La sua fortuna come regista, tuttavia, inizierà qualche anno più tardi, soprattutto grazie alla creazione della sua casa di produzione cinematografica (Les Films du Losange, fondata con l'amico-regista Barbet Schroder), che fino alla fine gli darà quella libertà assoluta di cui aveva bisogno per esprimersi.
In quasi 50 anni di carriera, Rohmer ha diretto circa 25 film, dallo stile originale ed inimitabile, gioielli atemporali, pieni di vita e di parole, di riflessioni sulla giovinezza, sulla moralità, sull'amore, sul caso.
Che fosse giovane "dentro" lo ha veramente dimostrato in ogni modo, al punto che pochi anni fa, ultra ottantenne, è stato uno dei primi registi a girare un film completamente in digitale.
Rohmer è stato anche uno dei primi a utilizzare una certa "serialità" nella sua opera, dando vita a cicli di film ispirati a diversi temi: i Sei Racconti Morali, le Commedie e i Proverbi, I Racconti delle Quattro Stagioni.

Ho visto spesso la gente storcere il naso, quando dicevo che adoravo Rohmer.
La frase che mi sono sentita ripetere più spesso, è stata: Non succede mai niente nei suoi film, si vede solo gente che parla. Io era proprio questo, che adoravo, questi dialoghi meravigliosi in cui si discuteva di Pascal con la stessa leggerezza che altri registi avrebbero dedicato ad un pettegolezzo.
Rohmer era ironico, curioso, sottile, intelligente, ed estremamente sensuale. Questo è un aspetto che non sempre è stato colto, ma alcuni dei suoi film sono di una sensualità sconvolgente.
Penso al suo capolavoro assoluto, Ma Nuit Chez Maud (vi prego, vi scongiuro, uscite per il mondo e compratevi il DVD), ma anche al meraviglioso L'Amour, l'Après-midi, e soprattutto a La Marquise Von O. (considerato da alcuni il film più erotico della storia del cinema). Ispirato ad una novella di Heinrich Von Kleist, girato in tedesco antico e filmato da un mago della fotografia come Nestor Almendros, il film narra la storia della Marchesa Von O. che, vedova, si ritrova all'improvviso incinta senza essere andata a letto con nessuno. Non aspettatevi di trovare né scene di baci, né tanto meno scene di sesso, ma se volete capire cos'è l'erotismo al cinema, allora guardatevi questo film, non rimarrete delusi.

Ma quello che io trovo di gran lunga più importante, nell'opera di Rohmer, è il suo amore incondizionato per le donne. E' lui, a mio avviso, molto più di Truffaut, l'uomo che amava veramente le donne.
Le donne di Rohmer sono protagoniste assolute, e sono estremamente vere: complicate, irritanti, agitate, curiose, innamorate, misteriose, vive. Sono loro a far girare il mondo (pensate soltanto alla protagonista di Le Rayon Vert, e capirete di cosa sto parlando).
Gli uomini invece, nei suoi film, sono sempre troppo indecisi e troppo paurosi per essere capaci davvero di godersi la vita.
Come nella bellissima scena di Ma Nuit Chez Maud in cui Jean-Louis Trintignant non riesce a decidersi a fare l'amore con Françoise Fabian e quando lei se ne va dal letto irritata e lui cerca di fermarla, lei lo guarda con disprezzo e gli urla, prima di sbattergli la porta in faccia:
J'aime bien les gens qui savent ce qu'ils veulent! (Mi piacciono le persone che sanno quello che vogliono!).

Ah, Monsieur Rohmer, vous nous manquerez beaucoup...

lunedì 11 gennaio 2010

IN RICORDO DI ERIC ROHMER

A chi ci chiedeva: "Ma di cosa vivete?"

Noi amavamo rispondere: "Noi non viviamo".

La vita era lo schermo, era il cinema.

Eric Rohmer

(4 Aprile 1920 - 11 Gennaio 2010)


giovedì 7 gennaio 2010

Bright Star

It is a pleasure to start the New Year talking about a wonderful and inspiring movie: Bright Star by New-Zealander director Jane Campion.
Bright Star recounts the sad (and true) love story between English romantic poet John Keats and Fanny Brawne, who was Keat’s neighbour in Hampstead during 1818. The two are very different: John is thinking about poetry while Fanny is more interested in her dresses, he’s dreamy, she’s very concrete, but this will not stop them falling (madly) in love with each other. The real problem is that Keats is poor, without any income, and completely dependent from the generosity of some friends and his talent as a poet to earn a living (talent that will be recognised just after his premature death). Therefore, he is not in a position to make any marriage proposal. The couple is dying to love each other, to live together, but they can’t, and this causes a desperate and painful situation. When Keats, very ill (with tuberculosis), leaves England for Italy in search of a temperate climate to spend the winter, they both know that they have few chances to see each other again (Keats, 25 years old, will die in Rome some months later). Fanny is left with the poem Keats wrote in her honour: Bright Star.

Visually enchanting, this movie teaches us that THERE is a way to film a period drama avoiding all the risks of stiffness and boredom that very often are the mark of this kind of movies. This is an old story narrated in an absolutely modern way. Images are vibrant, lively, full of colours, the perfect counterbalance to the increasing passion between John and Fanny. Seasons pass and we can enjoy the beauty of them. Some images are absolutely splendid: Fanny’s lovely silhouette dressed in white and bringing in her hands the first springtime blossoms, the glorious bluebells field in Summertime, and little Toots (Fanny’s sister) throwing away a leaf saying: “Go away leaf, there’s no space for Autumn here…”.
A word about the actors: Ben Whishaw IS the perfect John Keats. He’s got the right body and face to play the emaciated and feverish romantic poet, but with a modern touch, so that he could look like a contemporary maudit rock star. In real life, he is considered one of the most promising British actors (he’s been the youngest actor of theatre history to have played Hamlet, back in 2004). Australian actress and newcomer Abbie Cornish is perfect as well as the recipient of Keat’s affection: she’s fresh, witty, passionate and innocent in a very convincing way. In secondary roles, further excellent actors: Kerry Fox (who was unforgettable in Campion’s masterpiece An Angle at my Table) as Fanny’s lovely mother, Paul Schneider (a very good American actor recently seen in Away we go and Lars and the Real Girl) as John’s controversial friend, Mr. Brown. I personally think that the most beautiful character of the whole movie, a real gem, is Toots, Fanny’s little sister: she’s absolutely to die for. 
 
 This movie also reminds us how romantic we used to be a couple of hundred years ago, when a simple hand touching or a chaste kiss could resonate into lovers’ minds for months, for years, sometimes for ever. “Touch has memory”, says Keats to Fanny during their very last embracing.
Good movies too.
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