giovedì 29 novembre 2012

The EYE


It is not a mystery that two of the things I love most in life are cinema and travels.
This is why visiting a place to see something related to movies represents one of the greatest pleasures, for me. If, on top of that, some friends are involved, then it is just perfect.
Last week-end I went to Amsterdam to see the city’s new cinema museum, EYE (a particularly appropriate name, since I’m still struggling with my own!).
Linda and Gaetano, my lovely friends living there, talked to me about this place a while ago and I was very eager to see it. Located on the Northern part of the city, the museum can be reached by boat from Amsterdam Central Station (t is a ride of just three minutes and it doesn’t cost a penny). Made by Viennese firm of architects Delugan Meissl Associated, the building is quite amazing: it looks like a big white whale lying down on IJ River. We went there towards the end of the afternoon, and it was quite fascinating to see the city lights from there and to pass from the cold and dark outside to the warm and bright inside (the belly of the whale).

 
The four floors contain different facilities: in the basement there is an exhibition space and a cinema (67 seats, Art Deco Style, mainly used for screening classics and silent films), at the entrance floor, the biggest one, there is the box office, a shop, two cinemas (both having 130 seats, but one is called the Black Box, because everything is so black that nothing distracts the viewer from the screen, while the other can be transformed into a large empty space for installations and events) and a bar-restaurant with a terrace, at the first floor there are more exhibition and workshop spaces and on the top floor there is the biggest cinema (315 seats, having a built-in cinema organ to provide live musical accompaniment to silent films!).
 
 
EYE doesn’t have a permanent exhibition, it organizes four major exhibitions per year and it has a collection of more than 40.000 titles, from avant-garde movies to Hollywood classics until the contemporary indie works: in the basement there are lovely small cabins where people can watch movies choosing from this wide selection.
I really wanted to see a film there or in one of the cinemas, but I had already seen all the movies they were showing at the moment (the side effects of being a cinema freak) and I didn’t have enough time (the basement closes at 6 pm) to enjoy an old movie in those little yellow nests.
I enjoyed browsing through the exhibition, though, and of course I stopped by at the shop, where I managed to ruin myself buying cinema post-cards, a book about Vertigo by Alfred Hitchcock and a couple of issues of Sight & Sound magazine. 
 
I have to say I was very impressed by the space of the bar-restaurant.
It is huge, and usually big places are cold and gloomy, but here it is exactly the opposite and it is even cosy. Since it was apéro time, my friends and I asked for a table. To my surprise, the woman at the counter told us that we could wait for one or that we can have our drinks at the bar and seat down on the wooden stairs leading to the cinema 1. In fact, we decided for this second option and it was a great idea. From where we were seated, we had a lovely view of the restaurant, the terrace and the city of Amsterdam in the distance. More and more people were doing like us, and in no time the stairs were very crowded. When the movie of cinema 1 was over, everybody came down the stairs and stopped for drinks. There was such a lovely atmosphere, I could have stayed there for ever.
 
 
In fact, as usual, it doesn’t matter if it is Paris, Amsterdam or Hong Kong: home is where a cinema is… but if you happen to be in Amsterdam, don’t forget to see its EYE!

mercoledì 21 novembre 2012

Playtime

Pensate che il cinema sia completamente inutile nella vita di tutti i giorni?
Che non vi possa servire nelle cose pratiche? Per risolvere un problema? Far svoltare una serata? Ebbene no, cari lettori, il cinema serve sempre, anche per decidere dove andare a cena. 

Zazie, ad esempio, vive in una città con un numero così alto di ristoranti da far girare la testa. Scartando quelli troppo cari, o quelli troppo lontani da dove si abita e si lavora, ne restano talmente tanti che certe volte è persino scoraggiante doverli scegliere. Ecco che, in questi casi, il cinema viene in aiuto.
La settimana scorsa, un paio di miei amici volevano portarmi fuori a cena per dimenticare il brutto incidente che mi era capitato. Dove? Mi sono fatta guidare dall'unico criterio dal quale mi faccio guidare nella vita: ha a che fare con un film? Allora lo prendo, grazie! Da tempo volevo provare questo ristorante che porta il nome di uno dei miei film preferiti di tutti i tempi: Playtime di Jacques Tati. Detto, fatto. 

 
Playtime fa parte di una categoria di film a cui sono molto affezionata: quella degli anti-depressivi naturali. Quei film cioé che non importa quanto tu ti senta giù di morale e ti pare che la tua vita non abbia più senso, basta che li rivedi, e il mondo ti sorride di nuovo.
Tati ha iniziato a girare Playtime nel 1964, ma il film è uscito nelle sale solo nel 1967. Più che un semplice tournage, il film si è rivelato una grande, rovinosa avventura, per il regista. Dopo che si era reso conto, avendo cercato di girare per una settimana nella zona dell’aeroporto di Orly, che sarebbe stato impossibile avere il set da lui immaginato in un ambiente naturale, Tati ha fatto costruire in un’area di 15.000 m2 appena fuori Parigi, una vera e propria città (ispirata alla capitale francese così come a tutte le altre capitali moderne), dal nome sibillino Tativille. Inoltre, il regista decide di girare il film in 70 mm (unico caso nella storia del cinema francese), e questo per riuscire a rendere visivamente la grandezza degli edifici e degli spazi presenti nel film (tecnica tuttavia molto costosa). Alla sua uscita nelle sale, Playtime viene accolto malissimo. I critici, tranne alcune eccezioni, non lo capiscono, e il pubblico, che vuole vedere un film di Tati solo per ridere a crepapelle, rimane perplesso di fronte alla storia raccontata. Tutto questo, unito ai problemi di budget già nati in corso di realizzazione, farà fallire la casa di produzione del regista: Tati è costretto a vendere la propria casa (quella in cui vive, intendo), perde i diritti su tutti i suoi film e vede sfumare il sogno di conservare Tativille per le generazioni di futuri registi. Prima di morire, nel 1982, farà altri due film: Trafic e Parade, ma niente sembra poterlo consolare dal dolore per il "disastro" Playtime
Oggi, per fortuna e giustamente, questo film viene considerato un capolavoro assoluto del cinema mondiale. 
Monsieur Hulot, alter ego del regista, figura tenerissima di spilungone allampanato dall'eterno look cappello+impermeabile+ombrello, si aggira sperduto per la città. Ha un semplice appuntamento di lavoro, ma raggiungere l'ufficio dove lo aspettano sembra un'impresa più che titanica. Sul suo cammino incrocia una comitiva di turisti americani sperduta quanto lui. Quando finalmente riesce ad arrivare a casa, sembra riuscire a perdersi anche negli appartamenti tutti uguali del palazzo in cui vive. Senza parlare della cena nel ristorante super chic appena finito di sistemare e nel quale tutto sembra essere in precario equilibrio (che ovviamente Hulot contribuirà a distruggere). 
Film praticamente muto dove solo il genio infinito di Tati fa sentire la sua voce, Playtime mostra con un'eleganza e una grazia meravigliose il lato assurdo e demenziale del vivere moderno attraverso immagini, suoni, e metafore visive per i quali si resta a bocca aperta come bambini di tre anni. I luoghi asettici e tecnologici, il traffico impazzito che sembra una giostra, la vita negli appartamenti tutti uguali con le pareti a vetro, il finto glamour dei ristoranti di tendenza (la scena assolutamente mitica ed esilarante della cena), la freddezza e la bruttezza di certa architettura moderna, la mancanza di comunicazione reale tra esseri umani, i malefici della globalizzazione, insomma Tati alla fine degli anni '60 ci butta già là con assoluta nonchalance tutti i temi di discussione degli anni 2000. Riuscendo a farci ridere, ad intenerirci, e a ricordarci che basta poco (grazie al cielo!) per ritrovare la bellezza del mondo. Come in quelle brevi sequenze in cui la turista americana, alla ricerca disperata di una Parigi da cartolina, vede riflesse nelle porte a vetro le immagini dei monumenti più famosi della città.
Una pura delizia, una gioia infinita. Dio, quanto lo amo questo film.
Quello che mi è piaciuto del ristorante Playtime, è che ha veramente cercato di ricreare l'atmosfera del film: nell'arredamento, nei colori, dal menù alle stoviglie, tutto è in puro stile anni '60, con un piccolo tocco alla Monsieur Hulot. Senza contare che il cibo è eccellente:
Vabbé, insomma, lo avrete capito, il ristorante era solo una scusa per parlarvi di un film che adoro. 
Del resto, se la mia più grande passione fosse la cucina, starei scrivendo tutto un altro blog, non vi pare??!



Se volete provarlo, Playtime si trova al 5, Rue des Petits Hotels, 75010 Paris. 
Tel. 01 44 79 03 98. Attenzione! E' chiuso durante il week-end. 

domenica 18 novembre 2012

M E T R O F A L L


James Bond can fall from the sky? What a novice! Your cinema blogger can do so much better: she can fall from the stairs of an underground station. Without using a double, of course. 
Pity I wasn’t playing in any movie…
This is in fact what happened to me last Monday morning, on my way to work (where else I could fall, since my name comes from Zazie dans le metro?). It was pretty bad, but here I am, writing about it, so I guess it could be much worse. I didn’t break anything (miraculously enough!) but I ended up on the right side of my head and I must confess it isn’t the best place to have a haematoma that apparently will go away in about 3 (!) weeks.
I know, this episode has nothing to do with cinema, but I was struck once again by the fact that, even in the weirdest and most unpleasant moments of my life, I keep thinking about movies. 

The evidences: 
In France, when a bad accident happens, they call the firemen to bring people to the hospital. I wasn’t an exception. So, after few minutes that I was sitting miserably on the stairs of Abbesses subway station with my face covered in blood, I had a vision: four young and stunningly gorgeous firemen were there to rescue me. Two (very) misplaced thoughts immediately crossed my mind. The first: how can I possibly be so unlucky to meet such wonderful guys while I am at my worst physical conditions? The second: this reminds me of Fahrenheit 451(how, in a moment like that, I could have thought of a movie by Truffaut is the indisputable proof of my eternal love to him).
When I arrived at the hospital, the scenario was completely different. 
Everybody knows: hospitals are not funny places. I wished to find myself in the Chicago-style atmosphere of Emergency Room, but reality was different. French hospitals in a cold November morning can look a bit gloomy. The atmosphere of Lariboisière actually reminds me of the movie Polisse by Maïwenne. A great film about a police team taking care of abused child. Very often in the movie they take these children to hospitals and this is what I was thinking about while I was waiting to be visited by the doctor:
Once they told me nothing was broken, I felt reassured, but then they decided to have a scan of the right side of my head, just to be sure everything was fine. While I was waiting in the corridor for the scan, I had a weird feeling. Every single person who bumped into me looked terrified. It was for the state of my right eye, of course (at that stage its size was the double of what it should normally be), but I perceived another unpleasant feeling. I realized I looked like a woman who had been beaten by her husband. Explain to other people while you are in an awful corridor of an emergency room that you don’t even have a husband at home that could do that to you! Inevitably enough, I was in no-matter-which of the many Ken Loach movies about miserable and abused people. Thanks very much, Ken!
In the afternoon of that same day, I posted something on Facebook to advise my friends about my accident. Since I couldn’t possibly show a picture of myself, I decided to use one from the movie Elephant Man by David Lynch. Sadly enough, I was thinking about John Hurt in that movie while I was watching myself in the mirror for the first two days after the "event":
In the following days, though, my cinematic reference became Robert De Niro in Raging Bull by Martin Scorsese. I could have been called Zazie La Motta:
Now, unfortunately, the only film character I remind of is Jim Carrey in The Mask (maybe more yellow than green, but still...):
But don't worry, dear readers, I am already dreaming again the same dream I had all my life, that one day soon I will wake up and find myself in the mirror looking like her...
... with just a little scar under my right eyebrow!

venerdì 9 novembre 2012

Jagten

Nel 1995, i registi Danesi Lars Von Trier e Thomas Vinterberg (39 e 26 anni, all'epoca), redigono e firmano a Copenhagen il manifesto cinematografico conosciuto sotto il nome di Dogma 95.
Di solito, i movimenti cinematografici vengono riconosciuti in corso di attuazione o più facilmente dopo qualche tempo: la Nouvella Vague francese, il Neo Realismo italiano, il Cinema Novo brasiliano, il Free Cinema inglese, sono diventati categorie soltanto dopo che un gruppo di opere aveva chiaramente manifestato lo stesso stile, lo stesso tipo di storie, lo stesso modo di girarle. Von Trier e Vinterberg, invece, decidono di fare esattamente l’opposto. Scrivono alcune regole e proclamano che qualsiasi regista al mondo voglia mettersi a fare film secondo quelle regole, sarà considerato un regista Dogma. L’idea alla base del manifesto era essenzialmente quella di promuovere un cinema più “puro”: via gli effetti speciali, via gli investimenti miliardari, via l’ego smisurato dell’artista (il nome del regista non deve mai comparire, tanto per dirne una). Il loro decalogo, per la verità, è al limite dell’estremo: no a luci artificiali, no a scenografie, no all’uso della musica. Non c’è da stupirsi se il Dogma viene ben presto soprannominato “Voto di Castità”. Per quanto assurdo tutto questo possa sembrare, il manifesto nei suoi 10 anni di vita (nel 2005 è stato infatti ufficialmente “chiuso”), ha prodotto un po’ dappertutto nel mondo una manciata di film molto interessanti, e anche un paio di piccoli capolavori.
Lars Von Trier e Thomas Vinterberg ai tempi del Dogma
Il primo film Dogma, ad esempio, è stato anche l’esordio di Vinterberg: Festen, film sommerso da una marea di premi ed enorme successo di critica e pubblico. Personalmente, Festen a parte, io ho adorato alcuni film dogma considerati minori, come Mifune di Søren Kragh-Jacobsen e Italian for Beginners di Lone Scherfig, due chicche che vi consiglio di recuperare.
Vinterberg, colto alla sprovvista dal successo planetario di Festen, ha fatto fatica a proseguire con una decente carriera cinematografica. Quest’anno, è ritornato al Festival di Cannes con la sua ultima opera: Jagten (La Caccia), riscuotendo di nuovo un gran successo e portandosi a casa uno dei premi più importanti (e finora secondo me anche l’unico sensato dato dalla giuria), quello a Mads Mikkelsen (lo ADORO!) come miglior interprete maschile.
La settimana scorsa, in un’anteprima speciale al Cinéma des Cinéastes (il film uscirà in Francia il 14 Novembre e in Italia il 23 Novembre), Vinterberg ha incontrato il pubblico parigino per discutere del film.
La storia: Lucas, un quarantenne appena uscito da un doloroso divorzio, sta cercando di rifarsi una vita. Le cose sembrano andargli abbastanza bene: ha accettato un nuovo lavoro come aiuto-insegnante in una scuola materna, suo figlio Marcus sta per andare a vivere con lui e Lucas sembra anche aver trovato una nuova compagna. Questa serenità è però destinata ad essere spazzata via in breve tempo: Klara, una bambina di cinque anni (nonché figlia del suo miglior amico), confessa alla direttrice della scuola di aver subito attenzioni di natura sessuale da parte di Lucas. La direttrice, sconvolta da quello che ha appena sentito, mette immediatamente in moto la macchina infernale che rischierà di schiacciare la vita dell'uomo, del tutto innocente.
Come ha giustamente fatto notare Vinterberg durante la discussione seguita al film, Jagten è l’anti-Festen assoluto. In Festen, dei bambini innocenti erano costretti a subire le attenzioni morbose di un adulto (il padre), che la faceva franca fino alla famosa festa in cui il figlio si decide a raccontare tutto di fronte agli altri componenti della famiglia. In Jagten il problema è opposto: un uomo adulto viene accusato da una bambina di aver compiuto degli atti osceni, e deve passare attraverso le prove più dure per riuscire a dimostrare agli altri la propria innocenza. Il tema è ovviamente molto delicato, e Vinterberg dimostra un gran coraggio nel “mostrare” due aspetti davvero poco rappresentati al cinema: il fatto che i bambini possano e sappiano mentire, e il fatto che anche nei primissimi anni di vita possiamo provare un sentimento simile all’innamoramento nei confronti di soggetti adulti. Klara è chiaramente affascinata da Lucas ed è proprio di fronte al suo rifiuto (in quanto adulto responsabile) verso alcuni comportamenti inattesi della bambina, che quest’ultima reagirà “contro di lui”.
 
Costruito in maniera lineare e molto rigorosa, Jagten fa crescere la tensione a poco a poco, generando un sentimento di oppressione e ingiustizia che permea la pellicola in maniera costante ma dilagante. Lo spettatore, sapendo dell'innocenza di Lucas, soffre con lui, ed è inevitabilmente portato ad una grande identificazione con il protagonista, perché tutti potremmo essere vittima di un simile errore, e chi sarebbe pronto a crederci, contro la parola innocente di un bambino? Quali amici resteranno al nostro fianco? Chi continuerà ad amarci dei nostri familiari? Chi avrà ancora fiducia in noi? Senza mai dare giudizi morali, ma anzi facendo ben capire i drammi e i dubbi nascosti dietro ciascuno dei personaggi, Jagten impressiona per forza stilistica e capacità di non abbandonarsi mai a facili vie d'uscita o scorciatoie sentimentali. La sceneggiatura è solidissima, certo, ma qui come al solito gli attori fanno la differenza. Intanto, chi ha trovato una bambina di 5 anni così brava a recitare? Mentre su Mikkelsen, che volete che vi dica, per me è uno dei più bravi attori in circolazione. Se qualcuno di voi ha familiarità con il cinema di un altro grande regista danese, Nicolas Winding Refn, sa di cosa sto parlando: dalla trilogia Pusher al delirio Valhalla Rising, Mikkelsen dimostra una versatilità ed una capacità di cambiare registro di rara potenza. Qui è tutto in sottrazione, con rare esplosioni di rabbia che lasciano senza fiato. Semplicemente eccezionale.
Vinterberg, ritrovata la sua vena più personale, ritornato - se posso osare - più "dogmatico", dà vita ad un film dal quale non si esce indenni (magnifica, lo vedrete, la scena finale!). Non sono stupita che abbia citato come primo riferimento per il film Fanny e Alexander di Ingmar Bergman. 
Perché nella vita, si sa, dovendo avere dei modelli, tanto vale puntare in alto! 
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