domenica 28 ottobre 2012

Amour (?)

Quali sono le responsabilità di un regista?
Come vanno interpretate le sue scelte stilistiche, il soggetto che tratta, il modo in cui decide di girare le scene? Tutte queste domande mi sono venute spontanee guardando il film vincitore della Palma D'Oro all'ultimo Festival di Cannes, Amour, del regista Austriaco Michael Haneke.
Tanto vale ammetterlo subito: amo pochissimo il cinema di Haneke, anzi, sarebbe più corretto dire che non lo amo per niente. Del resto, lo avevo già scritto chiaramente in questo blog, nel post dedicato al suo precedente film, The White Ribbon.
Non conosco tutta la sua opera, perché alcuni soggetti da lui trattati non suscitano in me il benché minimo desiderio, è il caso ad esempio di Funny Games (che Haneke ha girato due volte, prima in Austria e poi in America), una riflessione sulla violenza gratuita e insensata della società contemporanea. Potrei sottoscrivere quello che aveva affermato una volta Truffaut: "L'unica violenza che sopporto al cinema, è quella dei sentimenti". Ecco, appunto.
Amour, invece, era in cima alla lista dei film che volevo vedere in questo periodo, sia per il premio vinto a Cannes, sia per le recensioni più che elogiative che avevo letto (mi sono detta: sta a vedere che questa volta ha fatto un film che mi piace!), ma soprattutto per i due attori protagonisti, che adoro: Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva. Insomma, ci sono proprio andata "con le migliori intenzioni".
Georges e Anne sono un'anziana coppia di coniugi parigini. Una mattina Anne, durante la colazione, ha un momento di passaggio a vuoto. Smette di parlare, non riconosce più suo marito e, quando si riprende, non ricorda nulla di quanto accaduto. Purtroppo, è solo l'inizio di un lento ed inesorabile declino. La donna, colpita da un ictus, perde a poco a poco la sua mobilità e la sua indipendenza. Il marito cerca di far fronte all'emergenza come può. L'unica figlia della coppia, Eva, viva a Londra con la sua famiglia, e le sue visite sono sporadiche e brevi. Quando la situazione si fa insostenibile, Georges si arrende all'evidenza: da soli, non potranno più andare avanti.
Haneke, la Riva e Trintignant sul set del film
Dal punto di vista formale, il film di Haneke è un film ineccepibile: regia fluida e bellissima (l'azione si svolge interamente - tranne una scena iniziale a teatro - tra le quattro mura domestiche), sceneggiatura ben costruita, un tema forte ed universale, dialoghi perfetti, interpreti da urlo. Il capolavoro dovrebbe essere ad un passo. E forse lo è, dal momento che i critici all'unanimità ne tessono lodi sperticate. A questo punto, quindi, diventa tanto più difficile dire quello che devo dire (e davvero non ne posso fare a meno): io questo film l'ho trovato immorale. Quasi inguardabile. Il disagio si è fatto strada a poco a poco, scena dopo scena, all'inizio non riuscivo neppure bene a capirne le ragioni, si trattava più di una sensazione che di una consapevolezza, poi, arrivata ad una certa inquadratura, ho capito che no, c'era proprio qualcosa che non andava. Perché c'è modo e modo di girare un film sulla vecchiaia e la decadenza fisica. Ed è sul modo che io ha da ridire. Perché ancora una volta Haneke fa cinema come lo intende lui, come uno studio, una ricerca, un'analisi. Con una freddezza che mi lascerà sempre sgomenta, il regista si limita a registrare i fatti, a "riportarli", come se stesse facendo una tesi di dottorato. Per me, questa cosa che lui fa è semplicemente inaccettabile. Non si può fare un film come questo e restarne al di fuori. Perché, vorrei dirgli, stai toccando uno degli argomenti più delicati, sensibili, e tristi per l'intera umanità, e ci vuole il coraggio di avere un po' di pietà nei confronti dei due protagonisti (e pure di questi poveri attori!). Ho letto, in un'intervista a Trintignant, che Haneke ha impedito in ogni modo a lui e la Riva di piangere. Impedito. Questo mi pare piuttosto rivelatore. Io capisco voler evitare la piaga del facile vittimismo, della retorica del dolore, tutto quello che si vuole, ma io credo che due persone normali in quella situazione di pianti se ne facciano parecchi, no? E tu caro Haneke non ce ne fai vedere nemmeno uno, no, però in compenso ci fai vedere che si pisciano addosso, che non riescono più a parlare, e ci mostri il loro corpo vecchio e nudo che viene lavato da altre mani (questa è la scena che non ti perdonerò mai, caro mio).  Sono entrata al cinema convinta che avrei pianto, che mi sarei disperata vedendo questa coppia che affronta la prova più difficile che la vita impone, quella della fine, che si vorrebbe almeno dignitosa e invece spesso non lo è. Ma non è andata così. Anziché emozionata mi sono ritrovata indignata. Certo, Trintignant e la Riva sono talmente bravi (ma un premio a loro, piuttosto??!) che riescono nell'impresa meravigliosa di rendere questi due anziani umani, umanissimi, ma io mi sentivo talmente raggelata che non mi sono venute le lacrime agli occhi nemmeno per sbaglio. Esiste una parola di cui Haneke non deve aver mai sentito parlare: compatimento. Che significa Soffrire Con. Ecco, io non voglio un regista che stia a guardare, io voglio uno che ci metta lacrime e sangue, che sbagli un'inquadratura, un passaggio, un dialogo, echissenefrega, ma che mi faccia sentire che è vivo e lotta insieme a noi.
O almeno ci prova. 

martedì 23 ottobre 2012

Tutte le strade portano a Parigi

Vi sarà successo, immagino, che un bel giorno una cosa che avevate sognato tutta la vita sia diventata realtà. Ecco, a me è capitato il giorno in cui mi sono trasferita a Parigi.
Nel mio personalissimo immaginario, questa città era la mia città, perché tutte le strade, qui, portano al cinema. Al cinema che mi piace, al cinema che quando ci penso (mi basta una sola inquadratura, un solo fotogramma), il cuore invia un messaggio di benessere e felicità assoluta a tutto il resto del corpo. Da quando sto qui, non passa giorno senza che mi capiti di pensare: ma ci vivo veramente, in questa città? Intendo dire: un posto dove se mi gira prendo un metrò e in 10 minuti sono sugli Champs Elysées e posso mettermi ad urlare a squarciagola: New York Herald Tribune??!!!
Ebbene sì, è vero, è reale! 
In questi anni ho accumulato una quantità ridicola di libri sui luoghi di Parigi in cui sono stati girati dei film, e ogni tanto mi diverto a fare dei pellegrinaggi “a tema”, ma una cosa davvero carina che mi succede ultimamente, è che riconosco i posti guardando un film. E non perché li ho visti in un libro, li ho proprio visti con i miei occhi! 
Questo fine settimana, ad esempio, colta da tristezza autunnale, ho rivisto due classici del cinema francese. Molto (ma molto, eh!) diversi tra loro per temi e stile, ma entrambi super famosi e indispensabili: Belle de Jour di Luis Buñuel (1967) e Un homme et un femme di Claude Lelouch (1966).
E mentre ero lì che ammiravo i vestitini Yves Saint Laurent sfoggiati da Catherine Deneuve (a proposito: auguri alla Deneuve che proprio ieri ha compiuto 69 anni!), ecco che, quando entra nel palazzo dove va tutti i pomeriggi dalle 14 alle 17 a prostituirsi, mi sembra di cogliere nel luogo un’aria vagamente familiare. Ma certo, è la corte in cui abita il mio amico Denis nel 13° arrondissement! Capite? Ho amici che abitano dove lavorava Belle de Jour

Rivedendo il film di Lelouche, invece, mi sono resa conto che Anouk Aimée abitava a Montmartre, al 14 di Rue Lamarck, praticamente dietro casa mia. Una mia vicina, insomma. 
Ebbene sì, continua la mia grande passione per i film degli anni ’70 (vi ricordate la mia recensione dei 3 Giorni del Condor?). Ho scoperto di avere questa nostalgia mista a struggimento per un modo di essere e di vivere che oggi mi sembra completamente perduto. La tenerezza, ad esempio, di sentir dire ad Anouk Aimée il suo numero di telefono: Montmartre 15-40! O cose come i telegrammi, la posta pneumatica (una mia ossessione!), i vecchi autobus parigini con la parte posteriore tutta aperta. Per non parlare della reazione di Jean-Louis Trintignant alla lettura del telegramma di Anouk Aimée, in cui lei gli ha appena scritto: "Je vous aime". Parte immediatamente da Montecarlo e si fa 5.000 km in macchina di notte per poter essere la mattina presto in Rue Lamarck! (uomini come Jean-Louis Trintignant, se siete lì fuori da qualche parte battete un colpo! Anche due, che a furia di aspettare siamo pure diventate un po’ sorde). E quel monologo bellissimo che gli parte nella testa ad un certo punto del tragitto sul fatto che lei sia una donna notevole per aver avuto il coraggio di scrivergli quelle parole. O la mitica scena in cui al ristorante, dopo aver ordinato la cena, richiama il camiere e gli chiede: "Garçon, avete delle camere?" Non ci posso quasi credere che sono qui che mi sdilinquisco su un film di Lelouche, ma tant’è. 
Immagino che la colpa sia sempre di quel sogno iniziale, quello di vivere a Parigi. 
E del fatto che tutti i giorni, sul treno locale che dal mio paesello natìo mi portava a scuola a Pavia, mi fermavo a guardare il poster che un genio incompreso aveva piazzato nella sala d’aspetto della stazione di Villamaggiore. Un dipinto di Bernard Buffet del 1963 (a tinte piuttosto cupe ed invernali, per altro): il retro della cattedrale di Notre-Dame, la Senna, un ponte. Ma tanto bastava per lasciarsi trasportare lontano.
All’epoca, per poter credere di andare a vivere a Parigi, un giorno, bisognava avere davvero una fervida immaginazione. Ma quella, per fortuna, non mi è mai mancata.




E una piccola sorpresa finale: Deauville Sans Trintignant di Vincent Delerm
(con tanto di dialogo citato da Zazie nel post!)

sabato 20 ottobre 2012

Cesare Deve Morire

L'altra sera, guardando l'ultimo film dei Fratelli Taviani (uscito sugli schermi francesi questa settimana), ho pensato una cosa: ma che meraviglia questi registi ultra ottantenni che si mettono a fare dei film speciali, particolari, al di fuori di qualsiasi logica di mercato, in bianco e nero, e con un linguaggio super moderno!
Pensavo a loro ma pensavo anche ad Alain Resnais, la cui ultima opera è uno stranissimo film nel film, nonché quattro diverse rappresentazioni teatrali di una sola pièce, insomma un bel delirio che sembra il film sperimentale di un giovane appena uscito da una scuola di cinema e invece - guarda un po' - questo qui è nato nel 1922 (i Taviani invece nel 1929 e 1931). Per non parlare del regista portoghese Manuel De Oliveira, che a cent'anni suonati, sforna film come se fossero croissants.
Non è incredibile e bellissimo?
Sì, soprattutto quando ci regalano un diamante grezzo come Cesare Deve Morire, Orso d'Oro all'ultimo Festival di Berlino e film scelto per rappresentare l'Italia alla prossima corsa per gli Oscar (e facciamo già il tifo perché entri nella cinquina e perché lo vinca!).
Roma. Carcere di Rebibbia. Reparto di massima sicurezza. 
Un regista incontra i carcerati per proporre, come tutti gli anni, un laboratorio teatrale: questa volta si è scelto di rappresentare il Giulio Cesare di William Shakespeare. I carcerati fanno un provino in base al quale vengono assegnate le parti. Il film segue le prove, costrette a svolgersi in cella, nei corridoi o in altre sale del carcere, dal momento che il teatro è inagibile per lavori. Alla fine, il lavoro viene rappresentato davanti a veri spettatori, nel teatro finalmente pronto.
I Taviani hanno deciso di girare questo film nella maniera più sobria e scarna possibile. E hanno fatto bene: Cesare Deve Morire dura poco più di un'ora (e forse anche per questo è di un'intensità incredibile), la scelta del bianco e nero è perfetta (esalta la tristezza del luogo e illumina lo sguardo e i gesti degli attori), e questo mescolare vero e falso (la rappresentazione della pièce nei luoghi fisici in cui i carcerati vivono), amplifica il testo ma anche il dramma di ciascuno degli attori. E' un film dove nulla è superfluo, tutto serve, e dove l'emozione nasce dalla sofferenza vera di uomini abituati tutti i giorni a dover fare i conti con il peso dei loro errori/orrori. Meravigliosa la scena dei provini, dove ai carcerati viene chiesto di dichiarare le proprie generalità in due modi diversi: prima in un tono di grande preoccupazione e tristezza (con un'ipotetica moglie che li aspetta poco lontano ma dalla quale forse saranno separati a lungo) e poi in un tono di grande incazzatura. In quei pochi minuti, la personalità di ciascuno di loro irrompe sulla scena, con risultati davvero esilaranti. La cosa più divertente è che per alcuni di loro non esiste differenza tra uno stile ed un altro: sono talmente incazzati che recitano nello stesso modo entrambe le situazioni. La bravura dei carcerati come attori, comunque, è al di là dell'inimmaginabile. 
E tanto più risalta se confrontata ai personaggi minori del film, tipo le guardie giurate o il regista teatrale, Fabio Cavalli, che nella vita è il regista vero di queste rappresentazioni in carcere - bravissimo - ma come attore è veramente scarsino, mentre Cassio, Bruto, Cesare, Antonio, se li avesse incontrati un giorno per caso Martin Scorsese, sarebbero tutti finiti in Goodfellas senza neanche battere ciglio.
Il loro riscatto come esseri umani, è chiaro, passa dal teatro, ed è miracoloso osservarli mentre lottano corpo a corpo con i ricordi, i rimorsi, i pezzi di vita che li hanno portati ad essere lì dentro (dopo i provini, ogni carcerato che ha avuto una parte ha diritto ad un intensissimo primo piano sotto il quale si può leggere il reato commesso e gli anni della pena).  
"Da quando ho conosciuto l'arte, questa cella è diventata una prigione".
Pronuncia l'attore che interpreta Cassio alla fine del film. La verità, è che conoscere l'arte significa capire di stare in una prigione anche per chi in cella non ci vive. L'arte è quella cosa magica che ci fa capire quanto siano limitate le quattro mura di casa nostra, che ci fa venire voglia di uscire (noi che possiamo!), di capire meglio, di andare verso gli altri e verso tutto ciò che è altro da noi. L'arte, si sa, è la vera differenza tra noi e gli animali: gesti totalmente inutili come la contemplazione di un quadro, la visione di un film, la lettura di un libro o di una poesia, fanno di noi essere umani migliori. Ci elevano. Ci fanno dubitare. Ci trasportano. Ci avvicinano, sempre, alla nostra più vera essenza.
In cella, per davvero (perché è nelle loro teste), ci stanno solo gli ignoranti. 
Per loro, fine pena, mai.

lunedì 8 ottobre 2012

Le Sommeil d'Or

E' proprio vero che le vie del blog sono infinite. 
Altrimenti non si spiegherebbe come proprio Zazie, la paladina della finzione pura, la pasionaria dei film cantati alla Jacques Demy (gli anti-realtà assoluti), si ritrovi sempre più spesso a guardare, amare e recensire dei... documentari
Di sicuro non faccio nessuna fatica quando si tratta di un film bellissimo e speciale come quello che ho avuto la fortuna di vedere ieri al Nouveau Latina (evviva queste piccole sale parigine che hanno sempre e comunque una programmazione incredibile!): Le Sommeil d'Ordel giovane regista franco-cambogiano Davy Chou. 
Il cinema cambogiano ha visto la luce negli anni '60. Il pubblico amava le pellicole prodotte nel paese e i film avevano un incredibile successo. A Phnom Penh c'erano almeno 30 sale: produttori, attori e registi, vivevano una stagione d'oro e indimenticabile. Soltanto 15 anni dopo, di tutto questo, non rimaneva neanche l'ombra. Nel 1975, Pol Pot e i suoi Khmer Rossi hanno sterminato (inclusi in quel milione e settecentomila vittime della loro follia, su una popolazione di 17 milioni di abitanti) quasi tutti quelli che facevano del cinema, considerata un'attività "nemica del popolo", e hanno distrutto la quasi totalità delle 400 pellicole create in quegli anni.
Davy Chou, nipote del produttore Van Chann, ha deciso di raccontare tutto questo in un documentario: ha intervistato alcuni dei sopravvissuti (registi, produttori, dei cinefili e la più famosa attrice cambogiana, Dy Saveth), ha raccolto il poco materiale rimasto (la registrazione di qualche canzone, alcune immagini, il trailer di un film) e poi è andato alla ricerca di tutto ciò che è rimasto dei luoghi in cui si faceva o si proiettava cinema in Cambogia.
I film migliori (non mi stancherò mai di scriverlo) hanno la capacità di spalancare porte su mondi sconosciuti. Un minuto prima non sapevo niente di cinema cambogiano, e un minuto dopo volevo piangere per aver perso per sempre l'opportunità di poterlo vedere e apprezzare. E' proprio il senso di perdita il tratto più forte di questa pellicola, perché vi posso assicurare che qui tutto è perduto: le scene girate, la vita vissuta, i luoghi conosciuti. La dignità e la semplicità con cui questi uomini raccontano come sono sopravvissuti alla morte, alle torture, ai campi di sterminio, all'uccisione delle loro famiglie, è a dir poco sorprendente. Ma è ancora più sorprendente, e forse per questo più straziante, vedere con quanta passione parlano dei film che hanno girato, delle storie, delle trame, delle canzoni, ricordando ogni più piccolo dettaglio, ogni più lontana emozione.
A fare da perfetto contrappunto a queste interviste, sono le immagini (straordinarie!) che Chou ha girato nella Phnom Penh di oggi, dove degli studi o di quelle mitiche trenta sale cinematografiche non è rimasto quasi nulla, se non misere e squallide trasformazioni in tristissime sale gioco, karaoke, o vere e proprie bidonville dove squattano poverissime famiglie. La macchina da presa cattura lenta, inesorabie, un mondo in disfacimento, ma si aggira anche per le strade di una città che cambia, creando ancora più forte questo senso di vuoto, come se non riuscisse ad esserci un collegamente tra passato e presente, come se la mancanza di pellicole fosse una mancanza di storia, di senso, di continuità (mai pensato a cosa sarebbe un paese senza un passato cinematografico? fa paura, eh?).  
Due momenti mi rimarranno per sempre nel cuore: quello in cui uno dei registi evoca la trama di un film mitico, una sorta di leggenda di cui all'epoca si favoleggiava, e che si interrompe per dire: "Adesso basta, non vi racconto altro, sennò vi faccio venire voglia di vederlo e poi come si fa?" E quello in cui due cinefili, dopo aver rivissuto l'attimo in cui al cinema Bokor (solo il nome fa sognare!) si erano seduti per l'anteprima di un film - tutti emozionati - accanto alla loro attrice preferita, ripercorrono il periodo della guerra: "C'erano i bombardamenti, era pericoloso, ma noi andavamo al cinema lo stesso. Perché la felicità di vedere un film era superiore alla paura".
Ho idea che se fossi stata una cinefila a Phnom Penh negli anni '70, sarei finita accanto a questi qua.

Un grand merci à Laura pour m'avoir parlé de ce film, ce post est pour toi, ma chère!
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