domenica 28 novembre 2010

Reazioni a caldo

Non so come, certe volte, ho delle idee bizzarre.
Tipo scrivere malissimo di un attore che però è anche mio amico da tanti anni e so per certo di vedere a cena quella sera stessa.
Tuttavia, so anche (nonostante l'aria minacciosa che ha finto nella foto) che a lui si può dire tutto, e che non solo è un gran signore e paga comunque la cena, ma che poi, prima di andare, mi chiede il nome della serie TV che ho magnificato perché vuole comprarsi il cofanetto.
E allora chapeau, Sig. Volo!
Vedrai che anche tu, prima o poi, un film bello riuscirai a farlo...

sabato 27 novembre 2010

This is the question


Da un paio di giorni non esco di casa per via di un malanno stagionale, e con mio vivo disappunto non posso andare al cinema. In mancanza del grande schermo, mi sono rivolta a quello piccolo, che uso soprattutto per dare sfogo alla mia strabordante passione per le serie TV. Ieri sera, accendendo la televisione per godermi il delirio seriale del momento, sono capitata su un film italiano che non avevo mai visto e che ho deciso di stare lì a guardare.
Non l'avessi mai fatto.
Dopo soli 10 minuti ho sentito che la mia salute stava vacillando. Ma non quella fisica, quella mentale.
Il film in questione era Bianco e Nero di Cristina Comencini.
Come succede spessissimo per i film che fanno nel nostro paese, mi è sorta spontanea la solita domanda: perché? Perché una regista non stupida come la Comencini non capisce che sta facendo un film che sarebbe indegno anche di una soap-opera di quarta categoria? Come si può pensare di affrontare il tema dei rapporti conflittuali tra bianchi e neri in Italia in quel modo? Ovvero un'infilata unica e senza pause di luoghi comuni, dialoghi più che imbarazzanti, prove di recitazione degne dell'oratorio (Fabio Volo e Ambra Angiolini, braccia rubate all'agricoltura!), e una regia di un piatto e di un banale da risultare talmente deprimente che dopo il film uno vuole solo andare a bere per dimenticare? Una pellicola che non soltanto non aiuta a capire una mazza di niente, ma che se possibile allarga il divario e aumenta l'incomprensione tra i popoli. E tralascio gli insulti al grottesco happy end. Ma come si fa, dico io, a non capire che non se ne può più di un cinema fatto così? Ma perché il pubblico italiano viene trattato come se si meritasse ancora questi film mediocri? Dubbio atroce: perché se li merita???
Stremata da questa visione, mi sono buttata a capofitto in tutt'altro livello di immagini, quelle di In Treatment (In Analisi) - Stagione 2. Una serie HBO (Santi Subito pure loro!) che quest'anno negli Stati Uniti è già arrivata alla sua terza stagione. Basata su una serie originale della Tv Israeliana, In Treatment regala quello che promette nel titolo: le sedute di uno psicanalista. Tra tutti i suoi pazienti, ne vengono scelti quattro, che vengono seguiti ogni settimana lo stesso giorno, mentre il venerdì è dedicato all'incontro del dottore con la sua supervisor, con la quale fa il punto sui suoi pazienti. Quando racconto alle persone di cosa parla questa serie, tutte mi fanno la stessa domanda: ah, ma quindi si vedono le cose che i pazienti raccontano durante la seduta? No, non si vede niente, non succede niente. Ci sono due persone che per mezz'ora stanno sedute una di fronte all'altra e parlano. Niente di più. Lo so, state pensando: che palle! Spiace deludervi, In Treatment è una delle cose più appassionanti che ci siano in circolazione.
E allora mi sono chiesta: perché In Treatment sì e Bianco e nero no?
Perché gli sceneggiatori e i registi delle serie TV americane OSANO. In tutti i campi. Osano nelle situazioni, nei dialoghi, nei format, nelle storie che raccontano. Cercando di andare a fondo, di non restare in superficie, di non accontentarsi. Non hanno paura di esagerare, di non essere politically correct, di sconvolgere gli animi o di ampliare la visione degli spettatori, forse perché sanno che gli spettatori saranno in grado di seguirli. Che, addirittura, vogliono seguirli.
E quindi ecco che sfornano questi prodotti (In Treatment non è che uno dei tanti) con sceneggiature perfette, dialoghi strepitosi, una regia inventiva ed attenta, e un cast di attori che sembra che nella vita abbia fatto solo quello e così bene (ovvero recitare divinamente) dalla più tenera infanzia.
In Treatment, in questo senso, è un regalo di valore inestimabile. La parte del protagonista, il dottor Paul Weston, è stata affidata all'attore Irlandese Gabriel Byrne, semplicemente grandioso (e ai primi posti nella personale classifica di Zazie tra le ragioni per cui vale la pena di vivere). Byrne, diventato famoso al grande pubblico con The Usual Suspects di Bryan Singer, ha lavorato con alcuni dei più grandi registi del cinema contemporaneo, come i Fratelli Cohen (nell'adorabile Miller's Crossing), David Cronenberg (Spider), Jim Jarmush (Dead Man), Ray Lawrence (Jindabyne), John Boorman (Excalibur), solo per citarne alcuni, ma ha anche ricevuto numerosi riconoscimenti per i suoi lavori a teatro (ricordo ancora con emozione di averlo visto recitare a New York 10 anni fa in A Moon for the Misbegotten di Eugene O'Neill). Per il suo ruolo da psicanalista in In Treatment, Bryne ha ricevuto un Golden Globe nel 2009 e numerose candidature ad altrettanti premi. 
Un'altra straordinaria attrice presente nel cast è Dianne Wiest, che in In Treatment è Gina, la supervisor del Dott. Weston. La West è un volto noto dei film di Woody Allen (grazie ai quali ha vinto per ben due volte un Oscar), ma qui, se possibile, raggiunge un'ulteriore vetta di bravura. Gli episodi dedicati agli incontri Paul-Gina, per quanto mi riguarda, sono sempre i migliori, e il piacere che i due attori sono in grado di dare agli spettatori è qualcosa che riconcilia con il mondo. In questa stagione della serie, vorrei menzionare altre due attrici strepitose: Hope Davis, nella parte di un'avvocatessa quarantenne appagata sul lavoro ma infelice nella vita privata, e Alison Pill (solo 25 anni ma già apprezzata in Milk), nella parte di una ragazza che scopre di avere un cancro e non vuole farsi curare.
Insomma, io alla Comencini e a numerosi altri registi Italiani vorrei consigliare di andare un po' In Treatment prima di pensare/scrivere/dirigere altri film di scarsa qualità di cui faremmo volentieri a meno.
Avrebbero davvero bisogno di farsi vedere da qualcuno.
Da uno bravo, però.


ps Grazie a Franco e Chiara per avermi fornito In Treatment 2! (anche se non tutto, infatti adesso sono disperata...)

martedì 16 novembre 2010

Xavier Dolan needs you!


When you love a movie, what are you ready to do for the film-maker?
This is the question I had to ask myself when I found out that Xavier Dolan, the young québécois genius behind one of my favourite movies of 2010, Les Amours Imaginaires, published an announcement on his web site and on his facebook page asking for money to produce his next movie, Laurence Anyways.
He has made this request through a very interesting website, Touscoprod, where you can help the production of documentaries and fiction movies starting from a minimum amount of 15 $CA.
The production of Laurence (the movie will cost a total of 6,5 million $CA) is trying to gather in a minimum budget of 50.000 $CA, to be reached within July 2011 (if this is not attained, the co-producers wil have their money back).
Intrigued by the weird proposal and fascinated by the idea of becoming one of the co-producers of Dolan's next movie, I have decided to seriously study the case.
First I read about the plot.
1989, Laurence Alia is in a restaurant with his girlfriend celebrating his 30th birthday, and he tells her about his secret project: he wants to become a woman.
Then I read the name of the actor playing Laurence.
Louis Garrel.
And then I immediately gave the money.
I mean: how could I possibly resist not to do so, after having read about the story and the cast?
Now I am the proud co-producer n° 130 of Laurence Anyways.
We (we few, we happy few, we band of brothers, as Shakespeare would say) have reached, for the time being, the total amount of 8.752 $CA out of 50.000 $CA requested. There are still 7 months ahead of us.

C'mon guys, Xavier Dolan needs you.
What are you waiting for???

domenica 14 novembre 2010

Le Ragazze dai Capelli Corti

Qualche giorno fa sono andata a vedere una mostra molto bella alla Cinémathèque Française: Brune/Blonde (se non volete perderla, c'è tempo fino al 16 Gennaio 2011), che racconta di come il cinema abbia rappresentato negli anni le brune e le bionde.Corredata da fotografie, dipinti, riviste, e spezzoni tratti da documentari e da film, la mostra ha per protagonista assoluta la chioma delle donne. La scelta dei film, trattandosi della Cinémathèque, non fa una piega (ce n'è per tutti i gusti: Hitchcock, Lynch, Almodovar, Hawks, Antonioni, Fuller, Bergman, Kiarostami ecc.).
Tuttavia, devo ammetterlo, secondo me c'è una grave mancanza, ovvero l'assenza quasi totale di immagini di donne dai capelli corti. E questa a Zazie è sembrata una vera ingiustizia (per una questione di carattere puramente personale: vedi ritratto del mio blog).
Così, per rimediare, ho pensato di dimostrare - prove alla mano - che le donne dai capelli corti ci sono, eccome. Sullo schermo e in giro per le strade. E non hanno niente da invidiare a quelle con i capelli lunghi, perché...

... possono essere misteriose e imprevedibili
come Faye Wong in Chungking Express di Wong Kar-Wai (1994)



possono essere infantili e spaventate
come Mia Farrow in Rosemary's Baby di Roman Polanski (1968)


possono essere sexy da morire
come Halle Berry in Die Another Day di Lee Tamahori (2002)


possono essere fragili e irresistibili
come Natalie Portman in Hotel Chevalier di Wes Anderson (2007)



possono essere di una classe insuperabile
come Audrey Hepburn in Sabrina di Billy Wilder (1954)


o possono essere, semplicemente, adorabili
come Jean Seberg in A Bout de Souffle di Jean-Luc Godard (1959)



Insomma, Corto is Cool, non siete d'accordo?

giovedì 11 novembre 2010

The (anti) Social Network

In my life, I fiercely argued with people about two movies.
In one case (Breaking the Waves by Lars Von Trier) I was defending the film, in the other one (Fight Club by David Fincher) I was pulling it to pieces. There is something, in Fincher’s cinema, which gets terribly on my nerves. I am ready to admit that this could be a personal matter, since the guy is definitely able to make movies, but at the same time I think I have the right to say that his cinema doesn’t talk to me AT ALL and that I find it IMMENSELY boring. Yesterday night I made a new effort and, with the best intentions, I went to see The Social Network. And guess what.

Everybody knows Facebook, but maybe less people are aware of the bleak history behind its creation. In 2003, Mark Zuckerberg, a 19 years old geek from Harvard, dumped by his girlfriend and looking for some kind of revenge, creates in just a couple of hours an internal network where all the Harvard guys can choose the “hottest” Harvard girl. Impressed by what he has been able to do, he‘s approached by the twin brothers Winklevoss, who are looking for somebody helping them to develop an idea for a social network to be used at Harvard. Zuckerberg accepts their proposal but, as a matter of fact, creates from that same idea a new kind of social network, The Facebook, which has a striking success not only among Harvard students, but also among students from Columbia, Stanford and other universities in the world. From universities to the rest of the planet, and from few thousands to 500 million “friends”, it is just a question of (short) time. The process is not a smooth one, though. The Winklevoss brothers decided to sue him in court, as well as Eduardo Severin, Zuckerberg’s only friend. A guy who helped him launch the site but who’s been put aside after the arrival of Sean Parker, creator of Napster and smart entrepreneur able to provide Zuckerberg with huge amount of capitals and a bit of social life.
And this is the story of Mark Zuckeberg, youngest billionaire on earth, and possibly most isolated human being on the same planet. The End.

The first scene of the movie, a super fast and super sharp dialogue between Zuckerberg and his girlfriend, let me think for a moment that well, this could be a very interesting movie. The modern epic/greek tragedy all the reviews I have read were telling me about. Quite soon, though, I realized that the first scene was also the best one of the entire movie. No sign whatsoever of the passionate tale I was waiting for, but just the feverish account (feverish because Fincher tries to make it interesting proposing the sequences as well as the dialogues at a fast pace) of a bunch of jerks from Harvard trying desperately to achieve important purposes like entering into exclusive "final clubs" of their exclusive universities (where basically they can get drunk and girls take off their clothes during ridiculous games) or creating a social network, always for their exclusive universities, not particularly to get in contact with other human beings but just to make money or to have sex with some girls or to be considered “cool” by other people.
This is not epic, this is just depressing.
I wasn’t surprised, though, because this is the typical effect of a Fincher movie on me: I don’t like the subjects he chooses for his stories, I don’t like the way he tells the stories, I think that all the characters in his movies are incredibly superficial, I think he is pretentious and boring, and I also believe he is a bit chauvinist. I don’t mind looking at movies without even a single female character, but I do mind when female characters are on the edge of parody. In The Social Network you basically have Zuckerberg’s ex-girlfriend in a couple of scenes plus a lawyer at the end that look normal, otherwise all the others girls are hysterical bitches.
Welcome to his (fight) club, not mine.
The only valuable thing in this movie are some actors performances: Jesse Eisenberg (already seen and appreciated in The squid and the whale by Noah Baumbach) is perfect as the almost autistic Zuckerberg, while Armie Hammer playing both the Winklevoss twins is quite amazing. I wasn't particularly impressed, though, by Andrew Garfield and Justin Timberlake. I hope they can do better than that in their next movies.

When I think about Fincher, I think about these lyrics by a Smiths song, Panic:
Burn down the disco
Hang the blessed DJ
Because the music that they constantly play
IT SAYS NOTHING TO ME ABOUT MY LIFE
Hang the DJ! Hang the DJ! Hang the DJ!
I just need to replace disco with movie, and DJ with film-maker.
That's all.


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