lunedì 26 ottobre 2009

Festival del Cinema di Roma - A night to remember


La vostra Zazie è appena tornata da Roma, dove è stata in missione cinematografica neanche tanto segreta.
Ho infatti assistito, la sera di giovedi 22 Ottobre, a due eventi della quarta edizione del Festival del Cinema: l'incontro con il pubblico di Meryl Streep (che ha vinto quest'anno il Marc'Aurelio d'Oro alla carriera) e l'anteprima europea del nuovo film dei fratelli Coen, A Serious Man.
Come si dice da queste parti: pas mal, se poi ci aggiungete un simpatico fuori programma, consistito in due amabili chiacchiere con Joel Coen e sua moglie Frances McDormand nel giardino dell'Hotel de Russie davanti a un bicchiere di vino bianco, allora ci scappa pure un YABADABADUUUU!!!!!
Ma veniamo ai fatti.
Di Meryl Streep non penso ci sia bisogno di dire molto: considerata, a ragione, la più grande attrice vivente, è stata accolta e poi congedata dal pubblico con due lunghe standing ovation. Ho provato a pensare ad un'altra attrice che le possa stare al passo, ho capito che non c'è. Forse Dame Judy Dench, ma non nella carriera cinematografica. La verità è che rivedendo gli spezzoni tratti dai suoi film che lei ha scelto di proporre, si rimane soggiogati dalla sua bravura: Manhattan, La scelta di Sophie, Il Cacciatore, I ponti di Madison County, Kramer contro Kramer, Innamorarsi, Il Diavolo veste Prada... la Streep cambia accento ad ogni film, eccelle nel dramma come nella commedia, sa cantare, ballare, essere dolcissima, essere stronza, disperarsi, farci ridere. E il tutto in modo così naturale da farci credere che sia un gioco da ragazzi, ma non lo è, altrimenti ci sarebbero in giro più attrici come lei. 
Comunque, con il pubblico, la Streep è perfetta: elegantissima, sobriamente truccata, sembra una diva ma è estremamente alla mano. Scherza sui suoi problemi con la tecnologia, racconta di quanto sia taciturno ma carismatico Robert De Niro, lascia cadere una battuta su Woody Allen al momento giusto o fa una riflessione sul cinema che cattura subito l'attenzione. Insomma, chapeau! Prima del suo incontro, una bellissima sorpresa, da lei stessa richiesta: la programmazione di un breve documentario sull'attore americano John Cazale, morto giovanissimo (a 42 anni, di un cancro ai polmoni), con solo 5 film all'attivo che sono però rimasti nell'immaginario collettivo: Il Padrino parte I e II, La Conversazione, Quel pomeriggio di un giorno da cani e Il Cacciatore

I knew it was you: Rediscovering John Cazale, è ricco di interviste a persone del cinema che l'hanno conosciuto e hanno lavorato con lui. Tra gli altri: Francis Ford Coppola, Sidney Lumet, Al Pacino, Steve Buscemi, Gene Hackman, Robert De Niro e la stessa Meryl Streep, che è stata la sua compagna per due anni, dal 1976 fino alla sua morte nel 1978 (avvenuta appena terminate le riprese del Cacciatore). Cazale dimostra ampliamente che, nel cinema, non esistono piccole parti, ma solo piccoli attori.
A seguire, il nuovo film dei Coen che, se ce ne fosse mai stato bisogno, arriva a riconfermare il talento sfacciato di questi due fratelli del Minnesota. E proprio nella loro città natale, St. Louis Park, si svolgono le avventure tragicomiche del professore universitario Larry Gopnik, assalito da una serie di sventure che lascerebbero senza fede anche il più ortodosso degli ebrei. La moglie lo scarica per un altro uomo, uno studente lo coinvolge suo malgrado in un losco affare, i figli si preoccupano più di come si prende la TV o di come andare ad una festa piuttosto che dei suoi guai, il fratello semi-demente e/o mezzo-genio gli procura solo grattacapi, i rabbini a cui si rivolge in cerca di risposte sembrano in preda ad uno stato confusionale peggiore, se possibile, del suo. Insomma, il povero Gopnik se la vede bruttissima, e vi toccherà andare al cinema per sapere come tutto questo andrà a finire. 
A me sembra che i Coen, come alcuni altri grandi registi che ho avuto la fortuna di seguire dagli esordi ai giorni nostri (penso, per fare un altro esempio, ad Almodovar), sono diventati dei "classici", e intendo classico nel senso meraviglioso del termine. Se ci si pensa bene, non sono tanti i registi che hanno saputo evolversi nel tempo rimanendo fedeli a loro stessi. Da Blood Simple in poi, i Coen hanno sviluppato un loro discorso, un loro modo di fare cinema, di raccontare le storie, di usare le atmosfere a loro care (penso ai tanti film che hanno ambientato nell'America degli anni '30-'40), di condividere il loro sense of humor (no, dico, siamo o non siamo ancora qua ad utilizzare le battute di Drugo del Grande Lebowski?) e di riflettere sulla realtà che ci circonda (sfido chiunque a non essere uscito angosciato dalla visione di No country for old men). Insomma, i Coen nel tempo si sono raffinati, ma non sono cambiati, sono migliorati. In questo film ci sono un prologo fulminante, un paio di momenti da antologia (il bar mitzvah del figlio di Gopnik che si è appena fatto una canna è da urlo) e la mia scena finale preferita degli ultimi anni. Gli attori sono, tutti, piuttosto sconosciuti. E bravissimi. Nessun nome di grido o di richiamo. Ai Coen non serve più. Il protagonista, comunque, è un attore di teatro (e si vede) che non mi stupirei di vedere nel prossimo Woody Allen.
Dell'incredibile fuori programma (Antonio Monda, Santo Subito!!!), posso raccontarvi che Frances MacDormand è una delle persone più adorabili che mi sia mai capitato di incontrare (gentile, sorridente, disponibile e interessata a quanto le si dice... che volete di più?) e che finalmente ho avuto modo di scusarmi con Joel Coen. Sì, perché dovete sapere che lo avevo già incontrato a NY lo scorso maggio, ma era la stessa sera in cui mi ero attaccata a ventosa a Jeremy Irons, e quindi lo avevo totalmente snobbato. Lo so, capisco, è brutto da ammettere, ma nella vita ci sono delle priorità. E comuque Joel, sono felice di annunciarvelo, mi ha perdonato.
Insomma, mancava solo Gregory Peck ad aspettarmi fuori in vespa, e stavamo a posto.

mercoledì 21 ottobre 2009

Magnifica Ossessione


Credo che anche a chi non mi conosce per niente ma abbia semplicemente letto un paio di post di questo blog, sia chiaro un concetto-chiave che mi riguarda: il mio regista preferito è, senza ombra di dubbio, François Truffaut. Le ragioni sono tante, e ci potrei scrivere sopra un libro, ma inizierò con questo: Truffaut nella mia vita non è stato un semplice regista, è stato tutto un mondo. Potrei dire di lui quello che lui diceva di Charlie Chaplin, e cioè che per me è più interessante di Gesù.
Ora, che io abiti a Parigi nella zona in cui Truffaut è nato, cresciuto, vissuto ed è stato poi sepolto, non è esattamente un caso. E oggi, 21 Ottobre 2009, sono passati 25 anni da quando è morto. All’epoca io non ero ancora una sua fan, ma ero già interessata al cinema, e ricordo che la notizia data alla TV mi aveva colpita. E mi era rimasta in mente la foto di questo signore dall’aria gentile e dagli occhi intelligenti e curiosi che sfoglia Le Monde mentre guarda distrattamente l’obiettivo (Truffaut è morto di un tumore al cervello a soli 52 anni).
Negli anni, ho visto più e più volte tutti i suoi film, letto tutto quello che lui ha scritto, letto tutto quello che gli altri hanno scritto su di lui e fatto una “capa tanta” a chiunque sul suo cinema. Una vera ossessione, insomma, ma una buona, che mi ha portato ad interessarmi ad altri registi, scrittori, attori, musicisti, che lui amava e mi ha fatto conoscere.
Oggi volevo ricordarlo e ho avuto l'idea di girare questo breve video (mi scuso in anticipo per la scarsa qualità tecnica dovuta all’uso di una semplice macchina digitale), ispirato ad una delle mie scene preferite di La Nuit Américaine (Effetto Notte), un film che racconta... le riprese di un film. In questa scena il regista, che poi è Truffaut stesso, ascolta un pezzo della colonna sonora al telefono (è il musicista che lo sta chiamando da Parigi) e intanto mostra alla macchina da presa una serie di libri sul cinema. Sono i libri che lui ama, sui registi che lui ama. Mi fa impazzire, quest’uomo: non solo sta facendo un film dentro un film, ma vuole imprimere sulla pellicola ad ogni minuto, in ogni modo possibile, la sua adorazione e la sua ossessione per il cinema.
Dio, quanto mi manca!


Effetto Notte by Zazie from Zazie from Paris on Vimeo.
n.b. Grazie di cuore alla mia amica Manù, senza la quale non sarei riuscita a girare questo piccolo film. Merci beaucoup, sorellina!

mercoledì 14 ottobre 2009

Lascia perdere, Johnny!

Non ho mai MAI amato la politica.
Me ne sono sempre tenuta lontana, istintivamente. Non ci ho mai creduto. Soprattutto in un paese come l’Italia, non mi ha mai sfiorato il pensiero che potesse davvero cambiare qualcosa. Ammiro smisuratamente quegli amici che, nonostante tutto, continuano ad impegnarsi e a lottare per le giuste cause. Non so proprio come facciano.
Io ho sempre avuto un unico tema al quale negli anni non ho mai smesso di dedicare la mia attenzione: la causa, diciamo così, “omosessuale”. Il motivo è molto semplice: mi riguarda da vicino. L’unico fratello che ho è gay. La maggior parte dei miei amici, pure.
Se devo dirla tutta, mi ha sempre fatto strano dover “lottare” per una cosa del genere. 

Dal mio punta di vista, infatti, non ci sarebbe nulla per cui lottare. Insomma, non ho mai capito dove sta il problema. Perché l’orientamento sessuale di qualcuno dovrebbe suscitare scandalo, o dibattito? E infatti non dovrebbe, ma a quanto pare viviamo in un paese il cui livello di civiltà non è abbastanza elevato per capirlo. E stiamo parlando degli anni 2000. Anni in cui, tanto per dirne una, persino nelle fictions nazional-popolari un gay dolce&gabbana-look-a-like non manca mai. E già qua inizia il primo inghippo: l’omosessuale può comparire, certo, ma è solo e soltanto di un certo tipo: è sensibile, simpatico, intelligente, spesso belloccio, ed è il perfetto amico delle donne. Altrimenti, come si fa ad accettarlo?
Io ho saputo che mio fratello era gay, perché lui me ne ha parlato chiaramente, quando avevo si e no 15 anni. E non erano gli anni 2000, no, signori e signore. Erano i primi anni ’80, e di gay nella TV italiana neanche l’ombra. La società tutta, la chiesa tutta, la stampa tutta, avevano un’unica cosa da dirmi sull’argomento: tuo fratello è SBAGLIATO, tuo fratello ha qualcosa che NON VA. Ed è GRAVE.
Io mi sentivo abbandonata a me stessa, e terrorizzata. Guardavo mio fratello e mi sembrava normale. Guardavo i miei amici e mi sembravano normali. Ma a quanto pare ero l’unica a vederli così.

E’ stato il cinema, ancora una volta, a venirmi incontro e a salvarmi.
Nel 1986, il regista inglese Stephen Frears ha portato sugli schermi un film scritto da un allora giovane e sconosciuto autore anglo-pakistano di nome Hanif Kureishi, dal divertente titolo
My Beautiful Laundrette (letteralmente: La mia bella lavanderia).

Hanif Kureishi e Stephen Frears
Io mi sono precipitata al cinema a vederlo per due motivi: la trama, che mi pareva fantascientifica date le circostanze (due ragazzi gay, uno inglese e l’altro pakistano, decidono di aprire una lavanderia a gettoni a Brixton, quartiere malfamato di Londra) e l’attore protagonista, Daniel Day Lewis. Ci tengo a precisare che, all’epoca, nessuno, e sottolineo nessuno, sapeva chi fosse Daniel Day Lewis. Io ero uscita pazza a vederlo recitare la parte dell’irresistibile snob Cecil Vyse in A room with a view (Camera con Vista) di James Ivory, e avevo deciso seduta stante che quello era il più grande attore della sua generazione (due premi oscar e 20 anni di strepitosa carriera dopo, posso dire che sono stata lungimirante?).
Eppure non avevo idea che quel film mi avrebbe cambiato la vita. Già, perché non solo in questo film mi stavano dicendo che mio fratello non aveva nessun problema, ma mi stavano addirittura facendo capire che mio fratello era super cool. E sapete cosa? Daniel Day Lewis, che nel film si chiama Johnny, non è un tipo particolarmente dolce e sensibile. No, è un ex-punk, ex-naziskin, con i capelli colorati metà scuri e metà biondi, che se ne strabatte di stare con un pakistano (e sullo schermo i due ragazzi si baciano e fanno sesso proprio come due etero qualsiasi), che spaccia droga per riuscire a trovare i primi soldi con cui aprire la lavanderia (che non a caso viene chiamata Powders, “polverine”...). Narra la leggenda che Stephen Frears non ne volesse sapere di far recitare Daniel Day Lewis. Figlio del poet laureate (quello che scrive le poesie per la Regina, tanto per intenderci) anglo-irlandese Cecil Day Lewis, nipote del produttore Sir Michael Balcon (quello degli Ealing Studios), Day Lewis trasudava troppa classe alta per Frears. Ma un bel giorno il nostro Daniel si è prentato all’audizione sfoggiando un perfetto slang dei bassifondi, e minacciando Frears che certi suoi amici non proprio raccomandabili gli avrebbero spaccato la faccia se non avesse avuto la parte. E deve averlo convinto.
My Beautiful Laundrette è il film più “vivo” che io abbia mai visto. Ho cercato a lungo un altro aggettivo, non l’ho trovato. Sprizza energia da tutti i pori della pellicola: è un film contro la Tatcher, contro il razzismo verso i pakistani (e allo stesso tempo contro alcune stupide tradizioni pakistane), contro la mentalità naziskin tipica di certa Inghilterra povera e ignorante, e contro le differenze di classe. E’ uno dei film più politically incorrect che abbia mai visto, talmente oltre da saltare a pié pari il “problema” dell’omosessualità di entrambi i protagonisti (problema? quale problema?). E’ una tale boccata d’aria, che ti si riempiono i polmoni di ossigeno in una sola immagine. E’ irriverente e spensierato. L’ultima scena, in cui Johnny e Omar si spruzzano con l’acqua di un lavandino ridendo come due bambini, con in sottofondo il glu glu glu di una lavatrice, ben rappresenta la vitalità e l’allegria con la quale si esce dalla sala dopo aver visto il film.
Leggendo questa mattina i giornali italiani e scorrendo le perle di saggezza uscite dalla bocca della Binetti e di Castelli sul tema dell’omosessualità, ho ripensato a Johnny.
L’ho rivisto che tira fuori la ingua per baciare il collo di Omar mentre dà un’occhiata complice alla macchina da presa. Ho pensato: Lascia perdere, Johnny, questi non ti capiranno mai.

E sai cosa? Non importa, vorrà dire che verremo tutti nella tua lavanderia a lavare i nostri panni sporchi. Loro, immagino, non ne avranno bisogno.
Ce li avranno immacolati.

martedì 13 ottobre 2009

Ciak, si gira!














E’ da quando ho l’età della ragione che mi pongo ad intervalli regolari questa fondamentale domanda: Cos’è meglio, il cinema o la vita?
La risposta cambia a seconda del momento, ma se dovessi mettere in fila tutte le volte che nella mia testa ho scelto l’opzione n° 1, non c’è dubbio, i film sbaraglierebbero l’esistenza umana.
Assistere alle riprese di un film, piuttosto banalmente, è il mio sogno più grande, se poi qualcuno dovesse chiedermi anche solo di passare davanti alla macchina da presa e fare ciao con la manina, allora lì si sentirebbero pure le campane suonare a festa.
Ancora non mi è mai capitato, purtroppo, però qualche mese fa ho trovato un A4 nella mia casella postale, in cui una società di produzione cinematografica avvertiva me e tutto il vicinato che avrebbero girato un film nella nostra strada.
Abito a Montmartre, un quartiere in cui non puoi fare un passo senza che ti capiti di sentirti la Amélie Poulain de noantri: il caffé dietro casa è quello di Amélie, il negozio di frutta&verdura pure. Insomma è un po’ come stare in un film ogni giorno. Ma che te ne girino uno sotto casa è tutto un altro paio di maniche. Il foglio diceva: La Légende Films ha il piacere di informarvi che sta preparando un lungometraggio dal titolo La Rafle (La Retata), della regista Roselyne Bosch. Interpreti principali: Gad El Maleh, Emmanuelle Seignier (la moglie di Polanski) e Mélanie Laurent (quella che ha fatto anche Inglorious Basterds di Tarantino). Il film racconta la retata di Vel d'Hiv, arresto in massa di ebrei avvenuto a Parigi nel Luglio 1942 e più precisamente il destino di una famiglia ebrea che abita a Montmartre.
Insomma, la notizia mi aveva esaltato. L'avviso era arrivato parecchio tempo prima dell’inizio delle riprese e così, il giorno in cui sono tornata a casa e all’improvviso, entrando nella mia via, mi sono ritrovata nella Parigi degli anni ’40, per un attimo ho pensato di avere le allucinazioni.
Incredibile! La mattina era il 2009, la sera il 1942. I muri, le insegne, gli oggetti per strada, tutto era stato modificato in maniera radicale. Il film lo stavano girando in una bellissima corte interna a due numeri da casa mia, e appena dietro il mio portone di ingresso avevano costruito una barriera di legno alta quanto gli edifici. Avevamo un finto hotel, un finto negozio che vendeva legno, carbone, vini e liquori, un finto ciabattino, un finto ebanista, un finto aggiustatore di biciclette, una finta impresa di linoleum e una finta impresa idraulica.
Sui muri, avvisi scritti in francese/tedesco e vecchie pubblicità strappate con la scritta: Faites confiance au soldat allemand (abbiate fiducia nel soldato tedesco).
Tutti quelli che cercavano di passare attraverso il set venivano fermati: dove state andando? La prima volta ho risposto timidamente: abito al 44, devo fare il giro dall’altra parte? No, no, prego, può passare da qui. Nei giorni successivi, mi riconoscevano: lasciate passare, la signorina abita qui (grazie per il signorina, bel giovane!). Fuori dalla mia porta di solito veniva allestito il banchetto delle vivande. Una sera c’erano dei finti militari che si mangiavano una zuppa. Mi sembrava di stare in guerra, mi veniva voglia di solidarizzare.
Alla fine, mi ero così abituata a vivere negli anni ’40 e a salutare la gente della troupe, che quando un giorno sono rientrata e avevano tolto tutto, dalla sera alla mattina come quando lo avevano creato, ci sono rimasta malissimo. La strada mi sembrava talmente triste, senza il décor cinematografico.
Era ritornata la solita via. E la solita vita.
Ancora oggi, a ricordo di quei venti giorni di riprese, ad uno degli edifici hanno lasciato l’insegna Bois et Charbons, Vins & Liqueurs. Credo sia stato il proprietario dell'ufficio, a chiederlo, e gliene sono grata, perché è un piccolo segno di cinema rimasto sulla strada.
E ogni volta che ci passo davanti mi viene nostalgia delle riprese, e di quando la vita sembrava un film.
Ed era molto, molto più bella.

mercoledì 7 ottobre 2009

C'est la Rentrée! - 3° Film


Se è vero che i film che mi piacciono di più sono quelli che mi restano in testa più a lungo, ecco a voi un film visto un mese fa e che ancora se ne sta in cima ai miei pensieri.
Vincitore del Gran Premio della Giuria all'ultimo Festival di Cannes (ma la Palma d'Oro, no?), Un Prophète è opera di Jacques Audiard, che dal 1994 ad oggi ha saputo imporsi come uno dei nuovi grandi registi francesi.
Dopo aver esordito con Regarde les hommes tomber e Un Héros très discret (entrambi con protagonista Mathieu Kassovitz, più conosciuto al pubblico per essere il regista di La Haine, L'Odio, e l'innamorato di Amélie Poulain), Audiard ha rasentato il sublime con i suoi ultimi tre film: Sur mes lèvres (Sulle mie labbra), De battre mon coeur s'est arreté (Tutti i battiti del mio cuore) e il film di cui vi sto parlando.
La storia di Un Prophète è molto semplice: Malik, un giovane arabo, povero e analfabeta, finisce in carcere con una pena di sei anni da scontare. A pochi giorni dal suo arrivo, viene avvicinato da César Luciani, l'anziano capo di una banda di corsi mafiosi che è il re della prigione. E' infatti a lui che tutti, incarcerati e secondini, obbediscono senza fiatare, pena l'essere barbaramente picchiati e in alcuni casi uccisi. Malik, dopo una prima, terribile prova per conquistarsi la fiducia dei corsi, entra a far parte a poco a poco del loro gruppo. Il suo è un cambiamento radicale: da impacciato e quasi timido, il ragazzo si trasforma in un duro quasi spietato. Impara a leggere, impara addirittura il corso e diventa in breve, grazie alla sua furbizia e alla sua intelligenza, il braccio destro di Luciani. Quando ottiene i primi permessi di libertà vigilata, continua a "lavorare" per lui in città. E infine, alleandosi alla comunità araba e da sempre contraria allo strapotere dei corsi, Malik riesce nell'incredibile impresa di fare il vuoto intorno a Luciani e sovvertire i giochi di potere all'interno del carcere.
Il cinema, vivaddio, ha ancora la capacità di sorprendermi come poche cose al mondo.
Se qualcuno m'avesse raccontato la trama di questo film senza dirmi chi stava dietro la macchina da presa, francamente, non ci sarei andata, a vederlo. Chi potrebbe mai aver voglia di sorbirsi un film iper-violento e iper-cupo TUTTO ambientato tra le mura di un carcere? Di sicuro non io. Eppure, questo film è esattamente il contrario di quello che ti aspetti. E' soprattutto un racconto di formazione, in cui assisti (e partecipi, perché la vivi con lui) alla trasformazione di un ragazzo che non può contare nemmeno su se stesso (è arabo e analfabeta, dove volete che vada?) in un uomo che ha imparato i codici così bene da saperli non solo usare ma servirsene per fregare chi glieli ha insegnati. E' una storia di conquista ma anche di crescita, di presa di coscienza del mondo, di scoperta dell'amicizia, del potere e del valore della morte, e della sensazione di beatitudine che ti può dare quello che sai fare bene (anche se quello che sai fare bene è fregare gli altri e uccidere).
Tutto questo non sarebbe stato minimamente possibile senza la presenza di un attore che per oltre due ore porta sulle proprie spalle il senso e il peso di Un prophète: Tahar Rahim, 28 anni, e un futuro radioso che lo attende. Ma i membri della giuria dell'ultimo festival di Cannes che problemi gravi devono aver avuto per non premiarlo?
La sua interpretazione è un work in progress proprio come il suo personaggio: all'inizio quasi animalesca, dove quello che sente te lo trasmette con il corpo e con lo sguardo (lo spavento in quei due occhi da bestiola intrappolata che ti fanno stare male solo a intravederli), e poi mano a mano si fa più sottile, parlata, raffinata. Il momento in cui Malik si butta nella macchina dopo aver sparato a degli uomini per strada è da brividi: l'estasi nel suo sguardo, quel mezzo sorriso che sale da una consapevolezza appena accertata, quel suo capire di essere la persona giusta al momento giusto, e forse anche il potere futuro che gli passa davanti in corsa.
E una menzione speciale, davvero non si può non citarlo, a Niels Arestrup, classe 1949, che nel film interpreta Luciani. Di un carisma e di una bravura senza pari (già lo aveva dimostrato nel ruolo del padre disgraziato di Roman Duris in De battre mon coeur s'est arreté). 
Ma, evidentemente, il merito di questa meraviglia va soprattutto a Jacques Audiard, che è una specie di Scorsese dei francesi, con quell'european touch in più che fa tutta la differenza. Perché Audiard non solo è un mago della macchina della presa, non solo ha una giustezza e una maestria nelle inquadrature che tutti i futuri registi di questo mondo dovrebbero studiare, ma alla perfezione stilistica aggiunge una profondità di sguardo e un'umanità straziante che lascia il segno su chiunque. In questo film, poi, si spinge ancora più in là: aggiunge un elemento metafisico, onirico, che all'inizio ti chiedi se sei tu che non ci vedi bene e fai fatica a cogliere e capire, e che poi diventa parte integrante del film, al punto che non te ne accorgi più e lo hai già digerito, e lo stai amando, e non puoi farne a meno.
E ti rendi conto che la magia del film sta proprio lì, nella commistione di questi due piani, due letture, due mondi, che si fondono insieme. 
E' buffo, ho parlato con tante persone di Un Prophète, e ho notato una cosa molto interessante: gli uomini hanno odiato l'inserimento di questo elemento metafisico, mentre alle donne è piaciuto moltissimo.
Che si fa? S'apre il dibattito?

domenica 4 ottobre 2009

C'est la Rentrée! - 2° Film


Allora, inizio subito con l'ammettere la colpa: NON sono una grande fan di Quentin TarantinoNON penso che Pulp Fiction sia il più bel film degli ultimi 15 anni, NON mi sta neanche particolarmente simpatico lui.
Ecco, così almeno le cose sono chiare. Ho visto però tutti i suoi film importanti, tranne Reservoir Dogs (non ce l'ho fatta, troppo violento per i miei gusti).
Fatta questa premessa, posso passare agli aspetti positivi della vicenda: Tarantino è un ottimo regista, basta anche una sola scena, quasi una qualsiasi, per capire che ha mangiato pane e cinema da quando era bambino, i suoi film sono sempre intelligenti e divertenti, e per me ha partorito un vero gioiello, che è Jackie Brown
 Il suo ultimo film, Inglourious Basterds, è un concentrato degli aspetti positivi e negativi del suo cinema. Ma veniamo alla trama. Nella Parigi occupata dalle truppe di Hitler, un gruppo di soldati ebrei-americani, The Basterds, sta diventando famoso con un particolare modus operandi: uccidere e fare lo scalpo a tutti i nazisti che cadono nelle loro imboscate. Quando si presenta l'occasione di preparare un attentato alle più alte cariche del Terzo Reich di passaggio nella capitale francese (per l'anteprima di un film su un cecchino tedesco che ha ucciso più di 300 uomini da solo), i Basterds si alleano agli inglesi e cercano di portare a termine la loro più importante missione. Nel farlo, incrociano il destino di una ragazza ebrea, Shosanna Dreyfus, la cui famiglia è stata sterminata dal colonnello tedesco Hans Landa. Shosanna è la proprietaria del cinema in cui i nazisti assisteranno alla proiezione del film, ma quello che i Basterds non sanno è che anche lei sta cercando di portare a termine la sua personale vendetta.
Negli anni, ho imparato a capire quali sono i film che io considero veramente grandi, dal numero di ore in cui mi rimangono in testa. Più tempo passa, meglio è. Ci sono film a cui ho continuato a pensare dopo giorni, settimane, persino anni. Immagini che si ripresentano costanti, stralci di dialogo, una luce particolare, un'atmosfera unica. Tutto questo è molto personale, ovvio. Molti di questi film non sono nemmeno considerati rilevanti nella storia del cinema, altri sì, ma a questo criterio ci sono affezionata.
Ecco, gli ultimi film di Tarantino mi sono rimasti in testa giusto un paio d'ore. Mi divertono, mentre li guardo, non mi annoio, anzi, tutt'altro, però una volta finiti, PUF!, spariti. 
Spesso sono ammirata di fronte alla maestria di Tarantino nel girare. Qui ci sono due piccoli capolavori: la sequenza iniziale, l'uccisione della famiglia Dreyfus da parte di Landa, e una lunga, estenuante scena di dialogo tra ufficiali tedeschi all'interno della sala di un ristorante più o meno a metà film. La tensione sale a poco a poco, Tarantino la spinge sino al parossismo, quando nessuno ce la fa più, né i protagonisti né gli spettatori, e infine lascia che l'inevitabile accada, in un'esplosione visiva ed emotiva. La violenza è proprio uno degli aspetti del cinema di Tarantino per me più difficili da digerire. 
Ho sempre letto nelle critiche ai suoi film che l'elemento ironico applicato alla violenza è quello rende interessanti tutti i suoi morti ammazzati. Che lo salva dalla trappola della violenza fine a se stessa, dal farne l'apologia. Sarà, ma a me questa cosa non ha mai convinto. E quando sento il pubblico sganasciarsi dalle risate di fronte a cervelli spappolati sui finestrini delle macchine o ad una testa fatta saltare con una mazza da baseball, a me viene un po' paura.
L'altro grande difetto di Tarantino è che è bravo, lo sa, e ce lo vuole dimostrare, a tutti i costi. Insomma, l'understatement non è proprio il suo forte. Basta aver letto un paio di interviste con lui per averne conferma, ancora peggio quando lo si sente parlare. Tarantino gigioneggia, lo adora, non riesce proprio a farne a meno.
Peccato, perché quando smette di fare il primo della classe, quando si lascia prendere la mano più dalla storia, e meno dai mezzi a sua disposizione per épater le bourgeois, è capace di grandi cose. Jackie Brown, ad esempio, contiene tutti gli elementi di un film di Tarantino, è solo più sobrio, meno squillato. Ed è grandioso.
Una parola sugli attori. 
Su Brad Pitt ho veramente poco da dire. Penso che sia l'attore meno dotato della sua generazione, la sua mancanza assoluta di talento e di carisma è imbarazzante. E' arrivato dove è arrivato solo perché ha un bel fisico e una bella faccia. Punto. L'unica parte che gli è riuscita benissimo è quella dell'idiota in Burn after reading dei fratelli Cohen (fatevi la domanda e datevi la risposta). L'attore austriaco Christoph Waltz, invece, merita tutt'altro discorso. Mai visto prima (pare abbia fatto molto teatro e molta TV dalle parti sue prima che Tarantino lo prendesse per il film), ma di talento questo signore ne ha da vendere. Perfetto nella sua ambiguità: un attimo prima è un gentleman comprensivo e un attimo dopo un feroce assassino, istrionico nel passare con estrema disinvoltura e assoluta padronanza dal tedesco all'inglese al francese all'italiano (Brad, già che ce l'hai nello stesso film impara qualcosa). 
Epperò, lo devo ammettere, anche lui rimane un po' vittima del gioco di Tarantino. Ovvero: anche lui gigioneggia. Questa parte gli piace e si vede. Questa parte gli farà vincere un premio e lo sa (e infatti ha ricevuto il premio come miglior attore all'ultimo Festival di Cannes). Per un bravo attore un film del genere è un invito a nozze. E allora, o fai parte di una categoria superiore, non-umana, come Daniel Day Lewis, e elevi il tuo ruolo a qualcosa che rasenta il sublime-quasi-folle, oppure diventi subito il grande attore che sa di essere un grande e non perde occasione di dimostrartelo. Diamo a Waltz il beneficio del dubbio e aspettiamo il suo prossimo film per giudicare. 
Nel ruolo di Shosanna, infine, troviamo l'attrice francese del momento, Mélanie Laurent. Diventata famosa con un bellissimo film, Je vais bien ne t'en fais pas di Philippe Lioret (non credo sia mai arrivato in Italia), è affascinante, brava, misteriosa, e piuttosto accorta nella scelta dei film, fino ad ora. Speriamo che continui così. 
Ah, domanda agli amici italiani in ascolto: di grazia, mi spiegate come hanno reso nella famosa versione doppiata dall'amendola di turno il fatto che Brad Pitt e altri due inglorious basterds si spaccino per degli italiani quando vanno al cinema in mezzo a tutti quei nazisti? Parlano spagnolo? O qualche altro bizzarro idioma? Vi prego, fatemi sognare!
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